Gli operai della vigna.”Le considerazioni di Giovanni Monchiero”
Il delitto di Latina (mi riferisco al bracciante morto dissanguato perché il datore di lavoro si era
rifiutato di chiamare l’ambulanza per poi abbandonarlo sull’uscio della sua povera casa) ha
suscitato profondo sdegno nel paese e i soliti interventi della politica. Più controlli! – promette il
governo ed assicura che raddoppierà gli ispettori del lavoro. In parlamento molti invocano
l’inasprimento delle pene ed intanto si scopre che quell’azienda agricola era sotto indagine da
cinque anni per caporalato e la procura impiega una dozzina di giorni a ritenere l’azione del titolare
meritevole di arresto. Se questi sono i tempi e i modi della giustizia, ritoccare il Codice penale
serve giusto a soddisfare emozioni.
Voce fuori dal coro quella di Oscar Farinetti: “Finché comperiamo i pelati a 70 centesimi il
barattolo, il caporalato ci sarà sempre”. Viene spernacchiato. Gli obiettano che pagare i pomodori
in scatola il doppio o il triplo o anche più, come accade nei negozi di Eataly, non mette al riparo dal
caporalato.
Convengo con Oscar che per l’agricoltura povera lo sfruttamento della mano d’opera sia, se non una
necessità, almeno una scorciatoia. Ma l’aumento dei prezzi al consumatore raramente si traduce in
un maggior guadagno per il coltivatore. Troppi passaggi, troppe intermediazioni, troppi profitti
speculativi. L’economia cammina per percorsi tortuosi.
La smentita più clamorosa alla semplificazione farinettiana viene dalla magistratura che scoperchia
il pentolone del caporalato anche nelle Langhe, comprese le colline del Barolo dove il vino costa
come il profumo in boutique e la terra vale tre-quattro milioni all’ettaro. Leggo che i caporali che
organizzavano il lavoro di immigrati africani sono stati messi ai domiciliari. Misura cautelare che,
per un extracomunitario clandestino, non sembra particolarmente efficace.
Grande è comunque lo scandalo fra gli innamorati del vino. Quando il prezzo della bottiglia,
all’uscita della cantina, corrisponde ai costi della produzione moltiplicati almeno per quattro (per le
etichette oggetto di culto, anche per venti) speculare sulla mano d’opera sembrerebbe smodata
ingordigia. Come quella dei marchi dell’alta moda che fanno cucire i capi di abbigliamento nel
terzo mondo o, in patria, da artigiani del sommerso con livelli di sfruttamento ottocenteschi.
Voglio sperare che i fatti emersi rappresentino un’eccezione. Ma la realtà è complessa e viste da
vicino le vigne parlano, aggiungendo ulteriori elementi di riflessione. Dedico una parte del mio
tempo a lunghe passeggiate sulle colline del Roero, tra le ultime isole boschive e tanti, splendidi
vigneti. Non siamo nel Barolo ma questa non è certo agricoltura povera. I compaesani che incontri
nelle vigne o, qua e là, in qualche piccolo frutteto o orto ad uso domestico, sono tutti
ultrasessantenni. Vignaioli che hanno visto crescere e prosperare le aziende familiari, un tempo
modeste, o coltivatori dilettanti, pensionati che dopo una vita in altre attività hanno riscoperto il
lavoro dell’adolescenza. Li accomuna l’età. E, con essa, i valori di riferimento. In particolare,
l’amore per la terra che il mondo contadino ha vissuto e tramandato per secoli. Poi c’è stata la
rivoluzione culturale, che nessuno ha proclamato e tutti supinamente vissuto.
Giovani in vigna non se ne vedono. Ci vanno giusto per decidere le operazioni essenziali: la
potatura, i trattamenti, la raccolta. Il loro tempo è dedicato alla cantina e alla vendita. Il lavoro nei
filari è affidato a squadre di albanesi e macedoni, organizzati in cooperative, formalmente legali, ma
dove, presumo, il reclutamento e la retribuzione del lavoro consentono profitti anomali ai capi. Cosa
che, del resto, avviene anche in molte cooperative italiane.
La nostra società non ama e non rispetta il lavoro. Il potere d’acquisto dei salari, in termini reali, è
fra i più bassi dell’Europa occidentale. Si moltiplicano i subappalti e gli incidenti non accennano a
diminuire. Crescono il nero e l’evasione, mentre le tutele pubbliche incoraggiano l’inoperosità.
È pacifico che alle nostre aziende, nelle fabbriche, nei campi, nei servizi, serva mano d’opera
straniera, ma rifiutiamo di ammetterlo e scoraggiamo l’integrazione. Con una curiosa eccezione.
Il disastro agli europei di calcio non deve farci scordare il trionfo – unico nella storia – ai recenti
campionati continentali di atletica leggera. Nelle varie discipline abbondano atleti di altre etnie
rapidamente e prontamente naturalizzati. Giusto ed opportuno.
Mi chiedo, però, per quale ragione onesti lavoratori che vivono qui da decenni con regolare
permesso di soggiorno, regolarmente assunti e ben noti al fisco, non riescano ad ottenere la
cittadinanza italiana. Questo doppio peso fra chi pratica uno sport e chi lavora davvero, dà
all’ingiustizia un tocco di triste italianità.
!2 LUGLIO 2024